“Neoespressionismo sfrenato, perché la gestualità non ha l’impeto e gli ingorghi dell’«action-architecture»: gode nell’inalare le flessioni edonistiche di Hans Arp sintonizzandole ad umori precariamente gioiosi.” Così descrive Bruno Zevi nella sua storia dell’architettura questo brasiliano di oltre cento anni morto ieri. E ancora Zevi descrive il personaggio in “ciò che in Le Corbusier è duttile e lirico commento di crude stereometrie assume disinvoltamente il ruolo di sostantivo nelle invenzioni a mano libera del discepolo più fortunato, il brasiliano Oscar Niemeyer.”
E ancora Kenneth Frampton parlando del Padiglione brasiliano alla Fiera mondiale del 1939 a New York progettato insieme al suo maestro Lucio Costa e a Paul Lester Wiener, scriveva: “Niemeyer portava la concezione della pianta libera, elaborata da Le Courbusier, ad un nuovo livello di fluidità e di interpretazione: organizzava intorno a una corte contenente un giardino esotico con la flora e la fauna brasiliane – un minuscolo paesaggio amazzonico completo di orchidee e di serpenti – questa concezione plastica evoca la cornice tropicale della stessa Rio.”
E si, perché questo signore, che ai più non dice nulla, ma che nel mondo dell’architettura è considerato un maestro del XX secolo, il rapporto con il paesaggio lo ha sempre avuto presente. Non ha lavorato in mimesi, annegando le sue architetture in fronde e liane ma ha costruito rapporti forti con il paesaggio in cui si introduceva. Non era un timido, non cercava compromessi, ma un sano dialogo tra gli elementi, passando per un forte plasticismo nel quale recuperava forme e linee esistenti nella sua mente o trovate sul luogo. Molti possono storcere il naso guadando le sue architetture, perché è vero, il primo impatto è possente, spesso monumentale, a volte violento, ma bisogna girare lo sguardo, vedere, osservare i rapporti con l’altro e capire i paesaggi messi in dialogo. E si sa, il dialogo può essere armonioso ma anche fatto di contrasti e posizioni antitetiche ma non sterile se fatto nel rispetto dell’altro. Ha avuto la fortuna di un lungo sodalizio con Burle Marx e in Italia ha conosciuto Porcinai. Quanti architetti oggi e in Italia capiscono l’importanza di lavorare con i paesaggisti? L’Auditorium di Ravello è una delle ultime meraviglie che ci ha regalato. Una volta bianca che si tuffa nel blu del mare, uno spazio pubblico realizzato da una piazza-terrazza nella quale si sta in un commovente silenzio, un gioco di riflessi dei massicci verdi della Costiera Amalfitana sulle vetrate specchianti, occhi persi nell’infinito; elementi misurati nel paesaggio, un’opera inserita con sensibilità, che invece manca tragicamente nelle tante palazzine geometresche che deturpano la Divina Costiera. Alzando lo sguardo verso Ravello bisogna proprio cercare quel punto e linea bianco che si insinua nelle linee degli agrumeti (quei pochi rimasti su quel versante). La linea di colmo della bianca copertura dialoga con le creste delle montagne con un senso dell’astrazione talmente alto da essere lirico.
E che dire di quest’uomo che ha attraversato tutto il Novecento, fortemente attaccato alla sua patria ma che dovette andare in esilio per poter continuare la sua vita da intellettuale, artista, architetto? Quando si trasferì a Parigi a causa del golpe militare del suo paese, fu famosa la battuta di Fidel Castro: “Niemeyer ed io siamo gli ultimi comunisti rimasti a questo mondo”. E si resta incantati della sua ostinata vivacità e felicità nel vivere fino alla fine, non incastrato in una triste vecchiaia di ricordi e badanti ma nella continua capacità di cercare la felicità e vivere. Alla sua volontà ostinata di volersi sposare a 98 anni con la sua segretaria più giovane di 38 anni e al terrore che questo procurava alla sua unica figlia contrariata di ciò (morta pochi mesi fa a 84 anni), vennero in aiuto i suoi amici che non lo percepivano come un vecchio, ma come un uomo e come tale, ancora con la capacità di innamorarsi e di provare allegria e curiosità verso il mondo.
Lui era semplicemente innamorato. E un ottimista.